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S(u)ono chi sai - Il Libro
Aprile
2014 viene pubblicato da Sensibili
alle Foglie l'ultimo lavoro di Anna
Nacci.
S(u)ono
chi sai - Musica e Counseling.
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S(u)ono
chi sai si articola in tre momenti:
Il primo parla
di musica
e di quanto importante sia sempre stata per tutti noi. Ogni essere
umano, sin dal quinto-sesto mese di vita intrauterina, è
sensibile a particolari sonorità. Questa sensibilità
si modula, in seguito, a seconda del vissuto e del background familiare
e culturale. La musica, poiché mette in attività simultanea
i due emisferi cerebrali, è stata, e in alcune culture continua
ad essere, uno strumento universale per raggiungere gli stati di
transe.
In questa parte
del lavoro si mette in evidenza come ognuno di noi reagisca in maniera
soggettiva alla Musica, provando emozioni e sensazioni diverse.
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Il secondo capitolo
racconta di una singolare esperienza di Counseling di gruppo
attraverso uniniziativa realizzata nel carcere maschile di
Rebibbia
Nuovo Complesso: il progetto Jesce
Fore, raccontato qui attraverso lelaborazione dei
vissuti dei detenuti partecipanti.
Anna
Nacci e la sua équipe hanno ideato e condotto un progetto
innovativo nei vari percorsi di terapia trattamentale previsti dall'Ordinamento
Penitenziario, ottenendo risultati sulla risocializzazione, la solidarietà,
il senso di collettività e di comunione.
Per due anni
hanno attraversato settimanalmente oltre dieci cancelli per incontrare
un gruppo di uomini che avevano deciso di darsi una possibilità
di cambiamento, condividendo emozioni, rabbia, lacrime, musica e
parole.
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Il terzo momento
del libro ha una dimensione manualistica e illustra una seduta di
Counseling individuale supportata dalla musica. Individuando
il suono utile a sciogliere i nodi neurologici, la musica
consente di visualizzare il vissuto emotivo ed elaborare il disagio,
aiutando a superarlo.
A partire da
Aristotele, il concetto di musica "omeopatica" ha convinto
diversi studiosi e musicisti. Anna
Nacci ritiene che possa essere assolutamente valido nel suggerire
una chiave di lettura per chi decide di mettersi in discussione.
Il Counselor
non si sostituisce a te e non ti cambia la vita. Ti offre l'opportunità
di dare nuove luci e nuovi colori al tuo vissuto in quanto potrai
osservare gli eventi con altri occhi e più consapevolezza.
Tu, se vuoi, puoi trovare le soluzioni.
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Non
usiamo il termine "cliente", perchè?
Per più
di una ragione ci sentiamo di condividere le argomentazioni che
nel 1951 portarono Rogers
a preferire il termine "cliente" al posto di "paziente".
Paziente infatti esprime la passività del soggetto. Paziente
è colui che, nel soffrire, sopporta e attende. E' nel campo
semantico della linguistica però, che l'espressione svela
la sua essenza. Paziente, in questo orizzonte, è ciò
che subisce l'azione e si colloca all'opposto dell'agente, destinatario
di un intervento terapeuticamente strutturato.
L'espressione
"cliente" rinvia ad una certa attività
del soggetto. Nella prospettiva rogersiana, quella cioè
relativa al colloquio non direttivo e all'ascolto attivo, il terapeuta
non impone alcuna terapia, né obiettivi curativi.
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Ma sentiamo
che il termine "cliente" ci dà la percezione di
un sorta di stonatura nel momento in cui pensiamo alla relazione d'aiuto,
eccezion fatta per quel modesto richiamo alla libertà di scelta
al quale il termine comunque rinvia. Si avverte un certo disagio nell'uso
della parola "cliente" riferito al soggetto che si rivolge al
counselor. Non si riesce a non pensare che la definizione di "cliente"
abbia radici ben chiare: cliens, da colere, che significa rispettare,
ossequiare.
Romolo
introdusse il patronato, e il plebeo - non godendo la pienezza dei diritti
civili - doveva scegliere un patrizio da difendere e ossequiare in cambio
di protezione. Il plebeo era così il suo "cliente".
Il "cliente" era un cittadino libero, ma legato al suo
patrono (un cittadino potente).
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Il "cliente"
sul quale è centrata la terapia è tutt'altro. L'universo
semantico al quale, soprattutto oggi, tale termine rinvia, riduce
e trasforma la relazione in una banale relazione commerciale nella
quale la salute è ridotta a merce invece che a bene comune,
e dimentica l'idea del "prendersi cura".
Alla relazione
di counseling è più pertinente il concetto di maieutica,
l'arte socratica del sollecitare la risposta che porterebbe alla
consapevolezza, alla crescita, al cambiamento, al miglioramento.
Ci torna molto difficile però coniare un neologismo che si
rifaccia alla matrice greca da cui proviene il termine "maieutico".
Alla luce di
queste considerazioni e con grande umiltà, ci permettiamo
di suggerire il termine "consultante"
dato che risuona meglio con l'intenzione del "cliente",
vale a dire la volontà di consultare un professionista con
il preciso proposito di chiedere un aiuto che durerà un periodo
limitato di tempo, per essere condotto ad un processo di elaborazione
del proprio disagio e, quindi, conquistare maggiore libertà.
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Ci risulta chiaro
che il vocabolo "cliente" per il counseling è
stato coniato a metà del secolo scorso da una lingua (l'americano)
che si è strutturata con segni e significanti innestati su
contesti culturali ed economici propri. Quindi ribadiamo un sentire
più confortevole nell'utilizzo di un termine che riesca ad
agganciare un significante più consono al contesto in cui
si sviluppa la relazione d'aiuto.
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chi sai o per organizzare delle presentazioni,
contatta direttamente l'Autrice scrivendo a anna.nacci@libero.it
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